Cultura del vivere del morire. Un buon fine vita: utopia del nostro tempo? Nel terzo incontro di Segnavie, l’esperto di bioetica Sandro Spinsanti si è confrontato, in un dialogo appassionato, con l’oncologo Paolo Cornaglia Ferraris sul tema del fine vita. Ecco cosa abbiamo imparato.
Insegnante di etica medica, fondatore e direttore dell’Istituto Giano per le Medical Humanities e il Management in sanità, promotore di corsi di formazione in bioetica, Sandro Spinsanti – ospite del terzo incontro di Segnavie – ha letteralmente catturato l’attenzione del pubblico sul tema “scomodo” della morte. A stimolare la conversazione c’era l’oncologo, pediatra e ricercatore Paolo Cornaglia Ferraris, editorialista de La Repubblica, che con sagacia e delicatezza ha reso la conferenza un emozionate dialogo sulla “buona morte”.
Buona morte: una contraddizione?
Morte naturale. Morte dignitosa. Usiamo quotidianamente espressioni come queste come sinonimo di buona morte. Spinsanti preferisce parlare di “morte graziosa” e lo fa pensando alle tre Grazie. Figure mitologiche che sembrerebbe abbiano poco a che fare con il fine vita. Ma il nostro ospite non la pensa così. Si può infatti morire “in braccio alle Grazie” tra serenità, equilibrio e completa sazietà della vita. Cosa significa?
Tra le braccia di Eufrosine, Aglaia e Talia
Le tre Grazie esprimono infatti tre stati d’animo che il paziente che attraversa l’ultimo tratto dell’esistenza dovrebbe poter esperire. L’invito è a lasciarci guidare dai loro nomi.
Eufrosine rappresenta la saggezza e il buon equilibrio, in questo contesto indica la possibilità, anzi il dovere, che ogni individuo ha di decidere per se stesso della propria vita, e dunque anche della propria morte. Aglaia, la serenità, richiama la certezza che ogni individuo dovrebbe avere circa il fatto che la propria volontà verrà rispettata. E, infine, Talia, la completezza e la sazietà, che invita a lasciare l’esistenza con consapevolezza.
Eufrosine: il felice equilibrio
La legge 38 del 2010 afferma che “tutti i cittadini hanno diritto alle cure palliative e alla terapia del dolore”. È fondamentale che i pazienti siano a conoscenza di questo diritto e che i medici siano consapevoli che proporre e fornire cure palliative è un loro dovere.
Credevo che il compito del medico fosse quello di non arrendersi mai, ma poi ho capito che la grande sfida è capire quando cambiare passo.
– Atul Gawande, chirurgo e giornalista statunitense
Su questo tema, c’è un problema di fondo. Le cure palliative oggi entrano in campo quando “non c’è più niente da fare”. Il problema è anche terminologico: nel linguaggio comune definiamo palliativo un rimedio che non risolve una difficoltà, ma si limita ad alleviarne le conseguenze. Una volta si diceva: “Non c’è più niente da fare, chiamate il prete!”. Oggi: “Non c’è più niente da fare, chiamate il palliativista!”. E non va bene.
Questa prospettiva distoglie l’attenzione dal vero obiettivo delle cure palliative: alleviare il dolore del malato e accompagnarlo nel miglior modo possibile. Per questo le cure palliative non possono essere bagaglio di un piccolo gruppo di specialisti. La medicina palliativa non può arrivare alla fine, deve integrare quella curativa.
Aglaia: la saggezza
Per un malato è importante sapere che le sue volontà verranno esaudite e questo si verificherà solamente quando “le decisioni sul fine vita verranno prese con il paziente e non sul paziente”, ammonisce Spinsanti.
Nella legge 219, approvata nel dicembre scorso, c’è un’innovazione terminologica importante: non si parla più di accanimento terapeutico ma di ostinazione irragionevole. Nel termine accanimento terapeutico c’è un giudizio negativo implicito sui medici. Ostinazione irragionevole ci porta invece a capire che l’irragionevolezza non è tutta da questa parte. Ma, a volte, alberga anche nei malati. O nei parenti. L’ostinazione irragionevole può avere diversi padri e diverse madri. E ha un rimedio privilegiato: che tutte le persone coinvolte – clinici, malati, familiari – si parlino con trasparenza. La conversazione trasparente, dunque.
Tutti, dall’individuo malato ai familiari, al personale medico, devono essere coscienti della situazione e permettere al paziente di finire la propria vita in braccio alle Grazie e non in braccio alla medicina.
Più che con le leggi dobbiamo regolarci con conversazioni vere, con la trasparenza delle parole.
– Sandro Spinsanti
Oggi “la grande sfida è quella di riuscire a introdurre nella nostra cultura l’idea che mentire al paziente è male tanto quanto l’accanimento terapeutico”. La trasparenza da parte dei medici e anche dei familiari (spesso sono i primi a mentire o a nascondere le reali condizioni di salute) è l’aspetto più importante per poter affrontare il fine vita in modo il più possibile sereno e consapevole.
Talia: la pienezza
Le leggi ovviamente non bastano a garantire una buona morte. È necessario fare un ulteriore passaggio culturale. Il paziente deve avere la possibilità di riflettere sulla propria situazione. Medici e familiari dovrebbero coltivare la capacità di ascolto emozionale, per aiutare il malato a riflettere sulla sua esistenza, a percepirne la pienezza e, se possibile, ad abbandonarla con la consapevolezza di aver vissuto pienamente.
Il passaggio dal registro della benevolenza a quello dell’esercizio dei diritti e dei corrispettivi doveri è un cambio culturale decisivo.
— Sandro Spinsanti
Un giorno forse, questo è l’auspicio di Spinsanti, non sarà più necessario distinguere tra “medicina per curare” e “medicina per accompagnare al fine vita”, ma esisterà una sola medicina: la buona medicina che cura quando può curare e quando non può più farlo tiene sotto controllo i sintomi, aiuta il paziente, anche dal punto di vista psicologico, e lo accompagna verso il fine vita, aiutando lui e i familiari a prendere decisioni ragionevoli per accompagnarlo verso un buon fine vita.
Un giorno arriveremo al punto in cui l’espressione “cure palliative” verrà cancellata e si parlerà semplicemente di medicina, che cura e che accompagna.
– Sandro Spinsanti